Autismo, negli anni 70 un caso su 5.000. Oggi 1 su 110

“C’è un’escalation preoccupante delle diagnosi di autismo non solo in Italia ma anche all’estero. Assistiamo a una maggiore sensibilizzazione rispetto alle diagnosi con strumenti diagnostici più attendibili, ma negli Stati Uniti alcune ricerche affidabili parlano di numeri inquietanti”. Ad affermarlo è Enrico Nonnis, neuropsichiatra infantile e direttore dell’Unità Complessa di Salute mentale dell’età evolutiva della Asl Roma 3, che giovedì 14 giugno riassumerà in pillole ‘La questione dell’autismo: aspetti diagnostici ed epidemiologici’ al convegno ‘Risorse e vulnerabilità del soggetto autistico’.

L’ evento è stato organizzato dall’Università ‘La Sapienza’, dall’Osservatorio Oisma e dall’Istituto di Ortofonologia (IdO) e si svolgerà a Roma nell’aula Cesare Gerin del dipartimento di Medicina sociale de l’Università ‘La Sapienza’ (Piazza Aldo Moro 5).
A livello epidemiologico, il primo studio pilota di prevalenza dell’autismo in ambito europeo è la ricerca ASDEU (Autism Spectrum Disorder in European Union), che ha visto partecipare l’IRCCS Stella Maris di Pisa. A questo si aggiunge lo studio dell’Istituto Superiore di Sanità condotto al Nord, al Centro e al Sud Italia. “I dati preliminari arrivano dalla Toscana- fa sapere Nonnis- e si attestano su 1 minore con disturbi dello spettro autistico su 110 bambini dai 7 ai 9 anni. Nei maschi, inoltre, l’incremento è maggiore perché l’incidenza è di 4 ad 1 rispetto al genere femminile”. Un trend aumentato vertiginosamente negli ultimi 40 anni, “passando da un soggetto autistico ogni 5 mila persone negli anni ’70 ad uno ogni 110 oggi”.
Gli autismi sono tanti. “Si parla di sindrome proprio perché i bambini autistici sono tutti diversi. Lo testimonia l’introduzione di una visione dimensionale del disturbo negli ultimi sistemi di classificazione, che permette di evidenziare una serie di situazioni molto diversificate fra loro come eziopatogenesi”, aggiunge Nonnis alla Dire.
La diagnosi è sempre più precoce. “Prima veniva effettuata a 3-5 anni- ricorda il neuropsichiatra infantile- adesso si riesce a farla in maniera attendibile dai 18 mesi di vita. Bisogna, in ogni caso, stare attenti ad avere una visione clinica accurata e a prendersi il tempo necessario per la valutazione ed il monitoraggio”. La ricerca clinica ha fatto progressi ed è importante differenziare l’intervento. “Un tempo veniva prevalentemente diagnosticata la disabilità intellettiva come diagnosi principale piuttosto che l’autismo; oggi l’impostazione dimensionale del sistema classificatorio Dsm 5 permette di differenziare i livelli medio, lieve e grave del disturbo e indica quindi anche le forme ad alto funzionamento cognitivo. L’autismo- ricorda Nonnis- è un disturbo del neurosviluppo, una condizione che dura tutta la vita, e le cause sono molto diversificate. Solo del 25% dei casi si conosce l’origine e si è evidenziata la causa genetica, come ad esempio nella sindrome di Rett”.
Se è vero che la genesi dell’autismo inizia durante la gestazione, “quando si arriva ad avere una diagnosi all’età di un anno e mezzo la situazione è già avviata e l’intervento non potrà intervenire sulle cause dell’autismo, ma se precoce e intensivo potrà ridurrà i sintomi ‘core’ del disturbo (isolamento e bassa cognitività) e la cascata sintomatologica secondaria che aggrava la condizione autistica. Proporre programmi terapeutici intensivi di 40 ore la settimana, che le strutture pubbliche non offrono- continua il direttore dell’Unità Complessa di Salute mentale dell’età evolutiva della Asl Roma 3- porta le famiglie a sostenere alti costi. Sarebbe più opportuno utilizzare, almeno a livello prescolare, ciò che già esiste a livello nazionale: gli educatori aggiuntivi negli asili nido, gli insegnanti di sostegno e gli educatori nella scuola dell’infanzia (personale pagato dal Miur e dagli enti locali) per attuare programmi terapeutici sostenibili. Gli operatori della scuola potrebbero essere supervisionati da psicoterapeuti esperti nel trattamento dell’autismo, ed attuare, sotto la loro guida, metodi terapeutici per obiettivi. In tal modo si realizzerebbe quell’intervento precoce ed intensivo auspicato e raccomandato da tutte le linee guida nazionali ed internazionali”.
Nonnis con l’aiuto di Costanza Colombi, ricercatrice presso l’università di Ann Arbor in Michigan e con la collaborazione dell’Università di Pisa, ha portato in tutte le scuole d’infanzia e negli asili nido comunali di un distretto della Asl Rm3 l’Early Start Denver Model: un programma applicabile in età prescolare.
“Nelle scuole d’infanzia si gioca e si utilizza il gioco, un’attività socializzante e comunicativa. Tutto è supervisionato da operatori ben formati. È previsto il contatto con il pediatra per riconoscere precocemente le situazioni a rischio, in accordo con i servizi del Comune di Fiumicino. Ciò permette di individuare i bambini molto precocemente. È un progetto sostenibile, ma ancora in una fase iniziale- aggiunge il neuropsichiatra- sta funzionando e vorremmo coinvolgere più bambini possibile. Il nostro è un ambito territoriale che conta 85 mila abitanti, e dopo la parte sperimentale si spera di andare a regime per avere educatori formati e competenti. Lavoriamo per obiettivi di gioco, attuiamo degli interventi pedagogici rivolti a tutti i bambini, con l’inclusione dei bambini autistici nel gruppo. Gli educatori coinvolti- conferma il neuropsichiatra infantile- hanno risposto molto positivamente e sono entusiasti del progetto”.
Nonnis conclude con una riflessione sulla politica sanitaria: “Occorre disinnescare questa sorta di partigianeria de ‘Il mio metodo è meglio del tuo’”. Lo studioso sa che un limite va messo: “Deve esserci uno spartiacque netto tra metodi dannosi e non efficaci (come ad esempio la terapia chelante) e trattamenti abilitativi e riabilitativi che hanno delle evidenze di efficacia. Deve esserci una riflessione scientifica continua, perché sposare un unico metodo quando gli autismi sono tanti non ha senso. I metodi che più funzionano sono un mix variabile di proposte ‘neuroevolutive’ e ‘comportamentali’ e il loro uso dipende dal tipo di bambino e dalla pervasività del disturbo. È come se dovessimo tagliare un abito su misura per ciascun bambino. Nell’autismo navighiamo in un mare difficile, dove è sempre necessario avere una visione clinica generale dell’individuo- termina il medico- visione che ci permette sia di confermare le ipotesi diagnostiche, sia di scegliere i trattamenti più adatti e più efficaci per quel determinato bambino e per l’espressività del suo disturbo”.

Notizia tratta dal sito www.dire.it

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